Il monumento a Dante in piazza Santa Croce a Firenze inaugurato nel 1865 in occasione dei seicentenario dantesco

GARIBALDI AMMIRATORE DI DANTE

di Gian Biagio Furiozzi

Nei primi decenni dell’Ottocento molti patrioti e intellettuali, animati dall’esigenza della definizione di un’identità italiana, fecero riferimento a “precursori” come Dante, Petrarca e Machiavelli. L’opera del primo, ha osservato Giuseppe Galasso, fu vista non solo come fattore linguistico-letterario, ma anche come presupposto di una coscienza collettiva “che designa il soggetto storico costituito dalla nazionalità italiana”. Tra il 1830 e il 1850, ha scritto a sua volta M. Clark, “Dante divenne il poeta nazionale, il genio che aveva creato l’italiano come lingua letteraria conosciuta da tutti gli italiani colti e anche da molti stranieri di buon livello culturale. Nel Paese tutte le persone istruite (e a dire il vero anche molti contadini, specie in Toscana) conoscevano a memoria interi canti della Divina Commedia”.

In genere gli storici ricordano gli interessi danteschi di Mazzini, Cesare Balbo, Ugo Foscolo e di Vincenzo Gioberti, oppure quelli d’impronta esoterica di Gabriele Rossetti. E’ raro trovare negli studi sul Risorgimento riferimenti all’ammirazione che per Dante manifestò, in molte occasioni, Giuseppe Garibaldi. Il quale non era interessato tanto all’idea foscoliana di un Dante sostenitore di una riforma della Chiesa fondata su un cattolicesimo più rigoroso e più ascetico; né semplicemente alla elaborazione di una tradizione linguistica, come aveva sottolineato Mazzini; né tantomeno alla visione che tendeva a fare di Dante un “grande iniziato”, secondo l’interpretazione che da Rossetti sarebbe giunta fino a Giovanni Pascoli. Egli guardò all’autore della Divina Commedia soprattutto da un punto di vista politico, ovvero quale antesignano dell’unità italiana.

Cesare Balbo diceva che “i buoni italiani avrebbero sacrificato volentieri Dante, Michelangelo e Raffaello in cambio di un capo militare capace di guidarli alla vittoria”. Ebbene, con Garibaldi un capo militare vittorioso apparve nella storia d’Italia; un capo che, anche da Dante, trasse ispirazione e incoraggiamento per la sua azione.

Non sappiamo molto sugli studi giovanili di Garibaldi, ma certamente egli, avendo a disposizione delle discrete biblioteche di famiglia a Nizza e a Genova, se si interessò soprattutto di argomenti di matematica, fisica e astronomia (molto utili per la sua futura attività di marinaio), si avvicinò anche ai classici della nostra letteratura: da Dante a Petrarca, da Tasso ad Ariosto, fino ad Alfieri e a Foscolo. Ma è assai singolare il fatto che a farlo appassionare davvero per la prima volta all’opera di Dante fu, secondo quanto ha rivelato egli stesso, una gentildonna che, nel 1841, lo accolse nella sua casa in Uruguay. Una donna colta, educata a Montevideo, che gli parlò, oltre che di Dante, anche di Petrarca e dei maggiori poeti italiani.

Tornato in Italia nel 1848, tra un’impresa e l’altra il Generale approfondì la conoscenza delle opere dantesche, come testimonia l’elenco dei libri conservati nella sua biblioteca di Caprera. Una biblioteca nella quale figurano, oltre alla famosa edizione della Divina Commedia illustrata da Gustavo Doré per la Sonzogno nel 1869, diverse pubblicazioni inviategli in omaggio da studiosi italiani e stranieri del poeta fiorentino.

Il 3 novembre 1848, in un discorso al Teatro Goldoni di Firenze per l’adunanza straordinaria del Circolo del Popolo, Garibaldi, pensando certamente anche, e direi soprattutto, a Dante, disse: “La Toscana ha rappresentato e rappresenta il centro di uno dei principali elementi della nostra nazionalità, la lingua; la prima delle lingue, la nostra, creata in Toscana, ingentilita in Toscana, io la credo la base fondamentale della nazionalità italiana”.

Nel 1859 egli aderì alla Società Nazionale patrocinata da Daniele Manin, Giorgio Pallavicino e Giuseppe La Farina, avente come programma quello di fare la guerra all’Austria con il Piemonte monarchico. Essendosi dichiarato sempre repubblicano, nelle sue Memorie egli sentì il bisogno di giustificare quella scelta, osservando che era in fondo lo stesso programma che era stato adottato alla sua partenza da Montevideo, quando aveva offerto una collaborazione perfino a Pio IX, e aggiunse: “E non fu tale il concetto di Dante, Machiavelli, Petrarca e tanti altri nostri grandi?” Ovvero, come avrebbe ripetuto più volte, quello di fare l’Italia “anche col diavolo”.

Nel 1859 il poeta milanese Francesco Candiani gli annunciò una sua traduzione dell’Inferno in dialetto meneghino, devolvendo i ricavi della vendita al “Fondo per la raccolta di un milione di fucili” e inserì nell’introduzione questa dedica: “Dante e Garibaldi! Forse i due più grandi uomini che l’Italia abbia generato”. Il Generale lo ringraziò con le seguenti parole, in data 14 gennaio 1860 : “Stimatissimo Candiani, io accetto con gratitudine la dedica dell’opera vostra. Ognuno getti il suo grano di sabbia all’edificio patrio e questa Italia che benché non ben ferma ancora nelle sue fondamenta non manca di spaventare i prepotenti che vogliono manometterla sorgerà brillante, potente, come l’ideava quel grande di cui vi accingete a tradurre e commentare l’opera stupenda”.

Il 4 febbraio 1861, a Giuseppe Mazzini che aveva espresso le sue consuete critiche verso la monarchia, e in particolare verso Vittorio Emanuele, Garibaldi replicò da Caprera: “Non penso come voi circa a Vittorio Emanuele – egli ha la fatale educazione dei principi – e non conosce la scuola del Mondo – ma egli è buono, ed in sostanza è la leva o perno che cercava l’Italia di Machiavelli e di Dante”. Qualche tempo dopo, replicando al periodico mazziniano l’”Unità Italiana” di Milano, che aveva scritto che i Mille di Marsala non erano “abbastanza puri”, avendo fatto una guerra “senza princìpi”, perché in alleanza con la monarchia, Garibaldi ironizzò: “Guerra senza princìpi fu veramente quella da Marsala al Volturno ove si realizzò come per miracolo il concetto degli uomini senza princìpi quali Dante, Machiavelli etc., cioè l’unificazione della patria italiana”.

Nel mese di aprile del 1865 la città di Firenze organizzò una manifestazione celebrativa del sesto centenario della nascita dell’Alighieri. A Giuseppe Dolfi, che lo aveva invitato, il Generale scrisse il 18 aprile: “Se vi è una festa a cui assisterei volentieri, sarebbe certo quella del grandissimo Fiorentino, ma me ne duole, non lo posso, e solo in un caso io posso ricalcar il Continente, e voi lo sapete. Grazie! Dunque per la gentilissima offerta”. E il 22 maggio successivo, allo steso Dolfi: “Mi duole di non aver assistito al centenario del grandissimo Fiorentino. Quando si è piccini, con compiacenza si festeggiano i Grandi, e l’Italia rimpicciolisce d’un modo da fare schifo”. Tra gli organizzatori dei festeggiamenti fiorentini vi era anche l’ungherese Teresa Pulsky, alla quale Garibaldi scrisse, sempre da Caprera: “Sarò sempre tra voi col cuore, e i plausi al primo Poeta della Civiltà Italiana mi giungeranno fin qui, e ne godrò per l’Italia e per l’avvenire del mondo”.

Il mese successivo anche il Comune di Ravenna organizzò una manifestazione per il centenario dantesco, e al sindaco che lo invitò a partecipare Garibaldi rispose: “Sono vivamente commosso dell’invito, che Voi mi fate in nome della Rappresentanza municipale di Ravenna. Ve ne ringrazio di cuore, ma non posso per ora soddisfare un sì gentil desiderio, che è pure il mio, quello di essere tra voi a rendere il mio culto al Divino Poeta. Voi avete un deposito sacro da custodire, le Ossa di Dante, che sono eterna protesta al Papato, che le volea insepolte. I custodi del sepolcro di Dante respingano quindi ogni conciliazione coi carnefici di Roma”.

Il 29 settembre 1868 scrisse a Benedetto Cairoli: “Caro Benedetto, l’opera d’unificazione d’Italia, non fu certamente iniziata da questa generazione. E da Dante a Machiavelli, a Manin a Settembrini, ogni amante di questo Paese, desiderò vederlo costituito. Alla generazione nostra però, toccò lo innalzare un’ala dell’edifizio nazionale”.

Il 5 aprile 1869, scrivendo ai membri della Società d’Istruzione Pubblica di Palermo, che il giorno precedente avevano commemorato i tredici martiri della rivolta palermitana del 4 aprile 1860, osservò che in quella data “Palermo iniziò la realizzazione del gran concetto di Dante”, mentre il 25 gennaio 1870 scrisse alla Direzione del giornale “Il Ficcanaso” di Torino che, contro la Convenzione di settembre, occorreva perseguire l’Unità dell’Italia “seguendo il vecchio programma di Dante”, alleandosi con chiunque fosse disposto a darci una mano, per esempio la Prussia, che – in effetti – in seguito egli sostenne essere stata una grande amica dell’Italia, avendoci consentito di ottenere Venezia e poi Roma, oltre che di liberarci dell’odiato Napoleone III. Al quale Garibaldi non perdonò neppure il plebiscito indetto a Nizza per ratificare, con pressioni di ogni genere, la sua città natale alla Francia. “Contro questo plebiscito – scrisse – noi Italiani ci attenemmo sinora al programma dei nostri grandi, Dante e Machiavelli”.

Il 12 febbraio 1870 scrisse al suo amico inglese Hugh Reginald Haweis: “Io sono Repubblicano, di quelli che credono l’onestà base di quel prezioso sistema. E non è onesto chi antepone al bene del Paese un miserabile amor proprio, che non spargono l’anatema su coloro che hanno voluto l’unificazione patria, primo bisogno dell’Italia, anche senza la Repubblica, Dante, Manin, Pallavicino, e che non sono capaci di commettere il delitto, di gettare la discordia tra i propri concittadini”. In una lettera del 1° luglio 1874 al generale Bordone, definì di pari valore la battaglia di Petrarca e di Dante contro “il mostruoso edificio della superstizione”.

Nel suo Testamento politico, invitando ancora una volta a diffidare dei “puri repubblicani”, che rifiutavano ogni convergenza con il Piemonte sabaudo per affrettare l’unificazione nazionale, lasciò scritto: “Per pessimo che sia il Governo italiano, ove non si presenti l’opportunità di facilmente rovesciarlo, credo meglio attenersi al gran concetto di Dante: ‘Fare l’Italia anche col diavolo’”.

Perché la scelta di un’alleanza con il Piemonte fosse assolutamente indispensabile, egli lo aveva spiegato fin dal 1854 in una lettera a Mazzini, con queste parole: “Appoggiarci al Governo piemontese, è un po’ duro io lo capisco, ma lo credo il miglior partito, ed amalgamare a quel centro tutti i differenti colori che ci dividono, comunque avvenga, a qualunque costo”.

Insomma, il motto di Dante (“fare l’Italia anche col diavolo”) era il suo chiodo fisso, un mantra che ripeteva ad ogni piè sospinto. Lo ritroviamo anche nella prefazione al suo assai polemico libro I Mille, indirizzata “Alla gioventù italiana”. “Voi giovani che mi leggete – vi troviamo scritto – lasciate pur gracchiare il dottrinarismo. Ove in Italia si trovino Italiani che pugnano contro tiranni interni e soldati stranieri, correte in aiuto dei fratelli e persuadetevi che il programma di Dante ‘Fare l’Italia anche col diavolo’, vale ben quello dei moderni predicatori di princìpi che millantano il titolo di partito d’azione, avendo passato tutta la vita in ciarle”.

Un ultimo riferimento a Dante lo troviamo nel romanzo Manlio, al cui interno egli inserì una bella poesia, Caprera, i cui ultimi versi, d’impronta quasi leopardiana, suonano così: “Io l’infinito qui contemplo, scevro dalla menzogna\Vasto azzurro che circonda i mondi\Gratitudine per l’infinita intelligenza,\immortal scintilla che m’imparenta coll’Eterno,\e che l’esser mio nobilita, e solleva dalle miserie del chercume,\orrenda di stragi storia e di macelli umani”. A cui faceva seguire queste parole di spiegazione: “Tale idea dell’infinito, emanata dalla ragione, io non l’insegno e dirò con Dante: ‘E se le mie parole esser dee seme\che frutti infamia al tradutor chio rodo’. Cioè: se le mie parole potessero esser seme da fruttar infamia al traditore dell’umana famiglia, il prete, l’opera mia non sarebbe perduta”.

La puntuale citazione, e il commento, di una terzina di un Canto dell’Inferno, (per l’esattezza la n. XXXIII, versi 7-8) dimostrano, se ve ne fosse bisogno, la sua profonda conoscenza dell’opera dantesca. Ma anche in altri due componimenti poetici di Garibaldi si trova una citazione diretta di un verso di Dante, per l’esattezza quello, contenuto nell’Inferno, che fa riferimento alle “persone vestite di piombo”, ovvero gli ipocriti, il cui maggiore rappresentante, per Garibaldi, era Napoleone III.

Sette anni dopo la morte dell’Eroe, venne fondata la Società Dante Alighieri. Ideata da Giacomo Venezian, e sostenuta dal massone Ernesto Nathan, essa aveva il compito di promuovere e diffondere la cultura italiana nel mondo, a partire dalle terre italiane ancora irredente. Ad essa aderì anche Menotti Garibaldi, insieme a Ruggero Bonghi e a Giosuè Carducci. L’Eroe dei Mille ne avrebbe senz’altro apprezzato le finalità.

Nei decenni successivi all’Unità i protagonisti del Risorgimento (Cavour, Mazzini, Garibaldi e Vittorio Emanuele) vennero inseriti in un Pantheon diretto alla creazione di un culto di eroi nazionali dall’impronta conciliatrice, “accanto ad una miscellanea – è stato osservato – di altri famosi italiani come Dante Alighieri, Cristoforo Colombo, Giordano Bruno e Ugo Foscolo”. Se Carducci, nell’ode A Giuseppe Garibaldi, giunse ad assimilare quest’ultimo all’eroismo letterario che può ascendere al cielo, immaginando un incontro con lo stesso Dante, anche Gabriele D’Annunzio, nell’Elettra (1904), celebra gli eroi della patria italiana, da Dante a Garibaldi, passando per Giuseppe Verdi.

In una biografia di Dante scritta alcuni anni orsono, Guglielmo Gorni scrive nell’introduzione al volume: “A ben vedere, in Italia Garibaldi e Dante hanno sempre ragione, di loro non si può parlar mai male; e, almeno per il primo dei due, ciò è passato in proverbio”. D’altra parte, ancora oggi, sono proprio Dante e Garibaldi, insieme a Leonardo, gli Italiani più famosi nel mondo.